Prendo dalla tasca il mio smartphone, di fabbricazione coreana ma assemblato a Taiwan, per navigare in rete e leggere le ultime news. Leggo degli ennesimi sbarchi a Lampedusa e delle tragedie in mare che inevitabilmente comportano; con un clic apro un riquadro di approfondimento che racconta l’incredibile storia di Paul Adimbha, che viaggia per cinquemila chilometri in fuga dal suo Congo martoriato da sanguinose guerre etniche. È un giovane che lascia tutto e tutti, giocandosi la vita con una traversata in mare per scommettere su un futuro di sicurezza e libertà. Subito dopo linko un articolo che parla del sequestro di una lussuosa villa a Montecarlo, intrecciata con losche vicende di malavita, corruzione e commercio di armi.
Chiudo il browser e osservo con curiosità il mio smartphone. Lo giro su se stesso, lo faccio saltellare sul palmo della mia mano e mi chiedo: possibile che quello che sto maneggiando abbia a che fare, in un modo o nell’altro, con Paul, i migliaia di disperati sulle coste di Lampedusa, una piccola fabbrica cinese a Taiwan e una lussuosa villa da 32 stanze a Montecarlo?
Non mi rispondo e, per un attimo, ripenso a quando frequentavo i banchi di scuola e le associazioni parrocchiali. Ripenso a quando ci raccontavano di quanto fossero poveri e disperati i Paesi africani. E noi, privilegiati cittadini di Paesi liberi e avanzati, subito pronti ad adottare a distanza un bambino africano o a sostenere la costruzione di un pozzo in un villaggio sperduto con la raccolta di tappi. Quanta ipocrisia e quanta ingenuità si nascondevano dietro quelle fotografie di bambini pelle e ossa o quei slogan colorati sui cartelloni!
Per carità, adottare un bambino a distanza o raccogliere tappi sono nobilissime azioni, questo è certo (io stesso, nel mio piccolo, cerco di farlo), ma almeno, dico io, smettiamola di raccontarci balle e abbiamo il coraggio di dire come stanno veramente le cose: l’Africa, così com’è, è un continente ricco, anzi ricchissimo! Pieno di risorse alimentari, minerarie ed energetiche. Ben più ricco del nostro vecchio continente europeo, per intenderci. Eppure, nonostante questo, ogni anno migliaia di profughi africani approfittano dell’attuale instabilità politica del Nord Africa per giocarsi la vita con viaggi disperati, cercando un futuro migliore nelle Americhe e in Europa.
Diciamocelo: se le infinite ricchezze di quell’antico continente restassero in quei Paesi e fossero distribuite tra i loro abitanti, nessun Paul rischierebbe l’azzardo di giocarsi la propria vita con un’attraversata su un gommone. La verità è un’altra, più volte denunciata da associazioni, reportage giornalistici e docufilm: poteri sovranazionali come le multinazionali approfittano con una facilità disarmante della debolezza dei governi precari di quei Paesi e della facile corruttibilità di poche persone che detengono il potere (spesso un gruppo di militari o un singolo dittatore) per sottrarre quelle generose ricchezze, che finiscono poi, di rimbalzo, tra un paradiso fiscale e un altro, ad alimentare le economie dei Paesi economicamente più avanzati.
Non solo: le poche ricchezze che i Paesi africani ricavano da questa predazione di risorse non vengono usate dai governi africani per far crescere la loro economia interna, ma troppo spesso per mantenere il potere con l’acquisto di armi e mezzi tecnologici, ovviamente venduti a loro volta dai Paesi occidentali. E così la storia si ripete: parte delle ricchezze ottenute con lo sfruttamento dei giacimenti o delle risorse naturali ritorna di nuovo alle economie più avanzate con la compravendita di armi da parte dei signori della guerra. Per dirla con un francesismo: in questo modo l’Occidente fotte due volte il continente africano.
I trafficanti di armi si inseriscono a meraviglia in questi Paesi, dilaniati da assurde guerre etniche spesso fomentate da chi vuole indebolire e mantenere il controllo di quelle regioni: divide et impera è il motto di machiavellica memoria di chi vuole soggiogare facilmente un piccolo Paese africano. E, ogni volta che viene pronunciato, un trafficante di armi si frega le mani: è pronto un nuovo affare e una nuova villa a Montecarlo da acquistare.
Ecco dunque in cosa consiste l’innocente ipocrisia che si nasconde dietro ogni raccolta fondi per l’Africa: mentre noi occidentali (aggiungiamoci ora anche i russi e i cinesi) continuiamo a fottere, silenziosamente e a luci mediatiche spente, la ricchissima Africa, ci raccontiamo pure la bella fiaba di quanto poveri e sfortunati siano gli abitanti del continente nero e di quanto noi tutti siamo eroici nel soccorrerli e salvarli.
Guardo di nuovo il mio smartphone assemblato a Taiwan: è incredibile la tecnologia contenuta al suo interno e la natura di alcuni materiali indispensabili per il suo funzionamento. Scopro che uno di questi materiali si chiama coltan, un minerale che viene estratto soprattutto in Congo, un Paese ovviamente destabilizzato politicamente e alle prese, dal 1998, con assurde e sanguinose guerre etniche (divide et impera, ricordate?). E così un Paul, che non ha mai visto uno smartphone e che il coltan non sa nemmeno cosa sia, anche se è stato estratto per anni da suo padre per una misera paga di 2 dollari al giorno, abbandona giustamente quelle terre senza leggi e tribunali, governate solo dal primo che ti punta addosso un kalashnikov.
Perché ho scritto di Paul stipato su un gommone nello stretto di Sicilia, del coltan racchiuso nel mio smartphone, di una multinazionale coreana e di un trafficante di armi indagato per la compravendita di una villa a Montecarlo?
L’ho scritto per dire che una soluzione agli sbarchi di Lampedusa non esiste. Non esiste proprio perché oggi tutto è collegato e il problema è di natura globale, mentre le uniche soluzioni che possiamo trovare sono locali o nazionali: non saranno mai sufficienti. Detto in altri termini, gli sbarchi di Lampedusa sono una conseguenza indiretta di un problema molto più ampio, globale e complesso, che intreccia dinamiche sovranazionali di tipo economico, finanziario e sociale. È un problema la cui soluzione non può essere trovata da un singolo Paese come l’Italia o da una Unione (più economica che politica) di Stati come quella Europea.
Ad oggi, di fronte a qualsiasi istanza globale, siamo completamente disarmati e non possiamo rispondere efficacemente. Quello che ci vorrebbe sarebbe una risposta politica globale, ma semplicemente non c’è. Dobbiamo ancora crearla. Al momento, non possiamo dire che esista un “governo mondiale”, ma solo delle superpotenze militari spesso influenzate e manipolate a loro volta da una fitta rete di interessi economici e finanziari sovranazionali. Esiste l’ONU, certo, ma sappiamo tutti quanto sia solo una farsa, una foglia di fico che nasconde una nuda e cruda realtà: dopo la caduta del muro e lo sgretolamento dell’URSS, chi si occupa oggi di “mantenere” l’ordine globale è solo la superpotenza americana, a sua volta condizionata da interessi economici e di potere. A questa si aggiungono oggi nuovi attori sulla scena internazionale, come la Cina e la Russia, entrambi pronti a depredare e sfruttare le risorse del ricco continente africano, pur di recitare la parte da protagonisti.
Con questo non voglio certo ridurre ingenuamente la questione demonizzando i centri di potere occidentali e facendo passare per sole vittime i poveri africani. Anche in questo caso, i rapporti di forza sono complessi, si intrecciano e spesso si rovesciano. In fondo, è sempre la stessa storia che si ripete: il più forte sfrutta il più debole. Multinazionali occidentali sfruttano governi africani deboli e corrotti. Africani corrotti e senza scrupoli sfruttano con intimidazione e violenza i propri fratelli più deboli. Ricchi lobbisti occidentali, politici corrotti, trafficanti di armi e di uomini, paramilitari: forti e deboli non hanno bandiera, nazione o etnia che tenga. A volte, colui che si mostra debole e subisce le angherie del forte diventa, a sua volta, il forte che sevizia e soggioga un nuovo debole. E così via.
Questi rapporti di forza, così sbilanciati e, ahimè, sempre più asimmetrici, sono il risultato di interazioni globali di varia natura (economiche, finanziarie, politiche) non regolamentate da nessuna “Carta” di principi fondamentali globalmente condivisi e non controllate da alcuna autorità politica globale legittimata dal consenso delle nazioni.
Proprio perché non esiste un reale governo mondiale che rappresenti in maniera legittima la volontà e gli interessi di tutti i cittadini globali, i centri di potere finanziario, economico e politico sono liberi di rendere sempre più asimmetrici questi rapporti di forza. Nessuna sorpresa, dunque: fintanto che non creeremo quello che, per il momento, è solo un’irrisoria utopia – un reale governo globale – le varie lobby economiche e finanziarie saranno libere di destabilizzare, sfruttare e fottere al meglio le regioni del Sud del mondo. E Paul, nello stretto di Sicilia, non sarà certo l’ultimo. Ce ne saranno ancora a migliaia; a centinaia di migliaia…
Migrazioni globali: le radici profonde di un problema senza confini di Davide Dal Pozzolo
Prendo dalla tasca il mio smartphone, di fabbricazione coreana ma assemblato a Taiwan, per navigare in rete e leggere le ultime news. Leggo degli ennesimi sbarchi a Lampedusa e delle tragedie in mare che inevitabilmente comportano; con un clic apro un riquadro di approfondimento che racconta l’incredibile storia di Paul Adimbha, che viaggia per cinquemila chilometri in fuga dal suo Congo martoriato da sanguinose guerre etniche. È un giovane che lascia tutto e tutti, giocandosi la vita con una traversata in mare per scommettere su un futuro di sicurezza e libertà. Subito dopo linko un articolo che parla del sequestro di una lussuosa villa a Montecarlo, intrecciata con losche vicende di malavita, corruzione e commercio di armi.
Chiudo il browser e osservo con curiosità il mio smartphone. Lo giro su se stesso, lo faccio saltellare sul palmo della mia mano e mi chiedo: possibile che quello che sto maneggiando abbia a che fare, in un modo o nell’altro, con Paul, i migliaia di disperati sulle coste di Lampedusa, una piccola fabbrica cinese a Taiwan e una lussuosa villa da 32 stanze a Montecarlo?
Non mi rispondo e, per un attimo, ripenso a quando frequentavo i banchi di scuola e le associazioni parrocchiali. Ripenso a quando ci raccontavano di quanto fossero poveri e disperati i Paesi africani. E noi, privilegiati cittadini di Paesi liberi e avanzati, subito pronti ad adottare a distanza un bambino africano o a sostenere la costruzione di un pozzo in un villaggio sperduto con la raccolta di tappi. Quanta ipocrisia e quanta ingenuità si nascondevano dietro quelle fotografie di bambini pelle e ossa o quei slogan colorati sui cartelloni!
Per carità, adottare un bambino a distanza o raccogliere tappi sono nobilissime azioni, questo è certo (io stesso, nel mio piccolo, cerco di farlo), ma almeno, dico io, smettiamola di raccontarci balle e abbiamo il coraggio di dire come stanno veramente le cose: l’Africa, così com’è, è un continente ricco, anzi ricchissimo! Pieno di risorse alimentari, minerarie ed energetiche. Ben più ricco del nostro vecchio continente europeo, per intenderci. Eppure, nonostante questo, ogni anno migliaia di profughi africani approfittano dell’attuale instabilità politica del Nord Africa per giocarsi la vita con viaggi disperati, cercando un futuro migliore nelle Americhe e in Europa.
Diciamocelo: se le infinite ricchezze di quell’antico continente restassero in quei Paesi e fossero distribuite tra i loro abitanti, nessun Paul rischierebbe l’azzardo di giocarsi la propria vita con un’attraversata su un gommone. La verità è un’altra, più volte denunciata da associazioni, reportage giornalistici e docufilm: poteri sovranazionali come le multinazionali approfittano con una facilità disarmante della debolezza dei governi precari di quei Paesi e della facile corruttibilità di poche persone che detengono il potere (spesso un gruppo di militari o un singolo dittatore) per sottrarre quelle generose ricchezze, che finiscono poi, di rimbalzo, tra un paradiso fiscale e un altro, ad alimentare le economie dei Paesi economicamente più avanzati.
Non solo: le poche ricchezze che i Paesi africani ricavano da questa predazione di risorse non vengono usate dai governi africani per far crescere la loro economia interna, ma troppo spesso per mantenere il potere con l’acquisto di armi e mezzi tecnologici, ovviamente venduti a loro volta dai Paesi occidentali. E così la storia si ripete: parte delle ricchezze ottenute con lo sfruttamento dei giacimenti o delle risorse naturali ritorna di nuovo alle economie più avanzate con la compravendita di armi da parte dei signori della guerra. Per dirla con un francesismo: in questo modo l’Occidente fotte due volte il continente africano.
I trafficanti di armi si inseriscono a meraviglia in questi Paesi, dilaniati da assurde guerre etniche spesso fomentate da chi vuole indebolire e mantenere il controllo di quelle regioni: divide et impera è il motto di machiavellica memoria di chi vuole soggiogare facilmente un piccolo Paese africano. E, ogni volta che viene pronunciato, un trafficante di armi si frega le mani: è pronto un nuovo affare e una nuova villa a Montecarlo da acquistare.
Ecco dunque in cosa consiste l’innocente ipocrisia che si nasconde dietro ogni raccolta fondi per l’Africa: mentre noi occidentali (aggiungiamoci ora anche i russi e i cinesi) continuiamo a fottere, silenziosamente e a luci mediatiche spente, la ricchissima Africa, ci raccontiamo pure la bella fiaba di quanto poveri e sfortunati siano gli abitanti del continente nero e di quanto noi tutti siamo eroici nel soccorrerli e salvarli.
Guardo di nuovo il mio smartphone assemblato a Taiwan: è incredibile la tecnologia contenuta al suo interno e la natura di alcuni materiali indispensabili per il suo funzionamento. Scopro che uno di questi materiali si chiama coltan, un minerale che viene estratto soprattutto in Congo, un Paese ovviamente destabilizzato politicamente e alle prese, dal 1998, con assurde e sanguinose guerre etniche (divide et impera, ricordate?). E così un Paul, che non ha mai visto uno smartphone e che il coltan non sa nemmeno cosa sia, anche se è stato estratto per anni da suo padre per una misera paga di 2 dollari al giorno, abbandona giustamente quelle terre senza leggi e tribunali, governate solo dal primo che ti punta addosso un kalashnikov.
Perché ho scritto di Paul stipato su un gommone nello stretto di Sicilia, del coltan racchiuso nel mio smartphone, di una multinazionale coreana e di un trafficante di armi indagato per la compravendita di una villa a Montecarlo?
L’ho scritto per dire che una soluzione agli sbarchi di Lampedusa non esiste. Non esiste proprio perché oggi tutto è collegato e il problema è di natura globale, mentre le uniche soluzioni che possiamo trovare sono locali o nazionali: non saranno mai sufficienti. Detto in altri termini, gli sbarchi di Lampedusa sono una conseguenza indiretta di un problema molto più ampio, globale e complesso, che intreccia dinamiche sovranazionali di tipo economico, finanziario e sociale. È un problema la cui soluzione non può essere trovata da un singolo Paese come l’Italia o da una Unione (più economica che politica) di Stati come quella Europea.
Ad oggi, di fronte a qualsiasi istanza globale, siamo completamente disarmati e non possiamo rispondere efficacemente. Quello che ci vorrebbe sarebbe una risposta politica globale, ma semplicemente non c’è. Dobbiamo ancora crearla. Al momento, non possiamo dire che esista un “governo mondiale”, ma solo delle superpotenze militari spesso influenzate e manipolate a loro volta da una fitta rete di interessi economici e finanziari sovranazionali. Esiste l’ONU, certo, ma sappiamo tutti quanto sia solo una farsa, una foglia di fico che nasconde una nuda e cruda realtà: dopo la caduta del muro e lo sgretolamento dell’URSS, chi si occupa oggi di “mantenere” l’ordine globale è solo la superpotenza americana, a sua volta condizionata da interessi economici e di potere. A questa si aggiungono oggi nuovi attori sulla scena internazionale, come la Cina e la Russia, entrambi pronti a depredare e sfruttare le risorse del ricco continente africano, pur di recitare la parte da protagonisti.
Con questo non voglio certo ridurre ingenuamente la questione demonizzando i centri di potere occidentali e facendo passare per sole vittime i poveri africani. Anche in questo caso, i rapporti di forza sono complessi, si intrecciano e spesso si rovesciano. In fondo, è sempre la stessa storia che si ripete: il più forte sfrutta il più debole. Multinazionali occidentali sfruttano governi africani deboli e corrotti. Africani corrotti e senza scrupoli sfruttano con intimidazione e violenza i propri fratelli più deboli. Ricchi lobbisti occidentali, politici corrotti, trafficanti di armi e di uomini, paramilitari: forti e deboli non hanno bandiera, nazione o etnia che tenga. A volte, colui che si mostra debole e subisce le angherie del forte diventa, a sua volta, il forte che sevizia e soggioga un nuovo debole. E così via.
Questi rapporti di forza, così sbilanciati e, ahimè, sempre più asimmetrici, sono il risultato di interazioni globali di varia natura (economiche, finanziarie, politiche) non regolamentate da nessuna “Carta” di principi fondamentali globalmente condivisi e non controllate da alcuna autorità politica globale legittimata dal consenso delle nazioni.
Proprio perché non esiste un reale governo mondiale che rappresenti in maniera legittima la volontà e gli interessi di tutti i cittadini globali, i centri di potere finanziario, economico e politico sono liberi di rendere sempre più asimmetrici questi rapporti di forza. Nessuna sorpresa, dunque: fintanto che non creeremo quello che, per il momento, è solo un’irrisoria utopia – un reale governo globale – le varie lobby economiche e finanziarie saranno libere di destabilizzare, sfruttare e fottere al meglio le regioni del Sud del mondo. E Paul, nello stretto di Sicilia, non sarà certo l’ultimo. Ce ne saranno ancora a migliaia; a centinaia di migliaia…
Categorie
Recent Posts
Galles, UK – Testimonianza di Noemi De Marchi
8 Settembre 2025La tragedia del Mattmark di Andrea Passerelli
8 Settembre 2025Tra due mondi: una lettera al mio bisnonno emigrato di Thays Ellero
8 Settembre 2025Archivi